La battaglia di Benevento nel romanzo storico dell’Ottocento

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Giacomo de Antonellis

La battaglia di Benevento nel romanzo storico dell’Ottocento

Il romanzo storico è un genere letterario nato nell’Ottocento soprattutto all’estero, ma che in Italia ottenne grande risonanza e successo eccezionale. La spiegazione è semplice. Frutto iniziale del Romanticismo europeo, questo genere si sposò magnificamente con le istanze unitarie e patriottiche del Risorgimento ricevendo l’entusiasmante adesione della ristretta classe intellettuale (quella che sapeva leggere) ma anche enorme diffusione nella popolazione non colta che ascoltava i cantastorie e imparava a memoria le gesta dei personaggi storici. C’erano analfabeti in grado di memorizzare, rigo per rigo, I Reali di Francia come l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata. Poesia e prosa erano perfettamente integrati. E il romanzo storico – come scrive Francesco Flora[1] – divenne “un poema in abito civile”. Non a caso il periodo che ha sanzionato la nostra unità politica da molti critici viene ricordato come il “secolo della storia”.

Per arrivare a questa svolta si deve però partire dalla fine del Settecento quando in diversi paesi del vecchio continente, e particolarmente in Germania, andò sovrapponendosi alla moda classicista il genere romantico o sentimentale. Schiller[2], Goethe, Novalis, Keats, Shelley, Byron, e più tardi Hugo, Stendhal, Chateaubriand, e soprattutto lo scozzese Walter Scott (1771-1832) che con il suo Ivanhoe seppe infiammare i cuori di intere generazioni. Da sottolineare che l’originale scrittura di questo affascinante capolavoro è del 1819 e che appena tre anni più tardi apparve in lingua italiana diventando subito, con espressione attuale, un best-seller che influenzò ampiamente la nostra letteratura diffondendo tra gli autori italiani una caratteristica particolare, quella di trasformare il racconto storico in attualità politica e propositiva fino a diventare rappresentazione dell’odierno[3]. “L’anno decisivo per il romanzo storico italiano fu il 1827, quando si concluse la prima edizione dei Promessi sposi ed apparvero Il castello di Trezzo di Giovanni Battista Bazzoni e la Battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi”[4].

 

L’intero secolo diciannovesimo è comunque costellato di opere letterarie ispirate ai fasti del nostro passato ma pur sempre costellate da amori appassionanti quanto disperati. Era lo stile dell’epoca. Del resto, “il romanzo storico italiano, accompagnando l’azione del Risorgimento, fu talvolta un’azione anch’esso e rare volte, quasi oblioso dei suoi compiti esortativi, raggiunse pagine d’arte”[5]. Ce lo conferma una semplice carrellata di autori e di titoli. Senza soffermarci sugli autori minori e sui poeti come Aleardi, Alfieri, Berchet, Foscolo, Fusinato, Mercantini, Monti, Pindemonte, Prati e via dicendo, senza trascurare un’opera originale per il suo carattere storico romanzesco e filosofico (il Platone in Italia eaborato nel 1804 dal giurista molisano Vincenzo Cuoco) cominciamo da uno scrittore poco citato nei compendi letterari come il Sestini[6] ricordato quale autore nel 1822 di Pia de’ Tolomei, novella in tre cantiche che incantò generazioni di lettori.

Ad essi si affiancarono, superandoli per fama, letterati come il Pellico[7] nel 1815 con la tragedia Francesca da Rimini; il D’Azeglio[8] con i romanzi Ettore Fieramosca del 1833  che ricostruiva la Disfida di Barletta (13 settembre 1503, epopea patriottica sul conflitto tra Spagna e Francia, con il protagonista a capo dei 13 cavalieri italiani e Guy de La Motte al comando della squadra francese) e Niccolò de’ Lapi del 1841; il Grossi[9], con l’opera Marco Visconti scritta nel 1834; il Niccolini[10] con il dramma anticuriale Arnaldo da Brescia; il Cantù[11] con la Margherita Pusterla edita nel 1838; infine il Bresciani[12] autore di racconti para-storici che illustrano fatti di attualità, con intenti pedagogici ad uso del popolo, come la trilogia del 1850 composta da L’Ebreo di Verona, La Repubblica romana e da Lionello o delle Società segrete (in questi casi il sacerdote trentino descriveva episodi assai dibattuti ai suoi tempi) mentre rientra nella classica categoria dei romanzi storici La contessa Matilde di Canossa. Per concludere questa carrellata letteraria va citato pure l’Amari[13] il quale, benché storico di fama specializzato nel mondo siciliano e non romanziere, nel 1843 descrisse con forza patriottica la ribellione del popolo siciliano contro lo straniero.

Ma il quadro che ci interessa maggiormente riguarda Benevento e la sua storica battaglia. E qui interviene in primissima linea la figura di F. D. Guerrazzi[14] con la sua celebre opera che venne pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1827, l’anno cruciale del romanzo storico. La battaglia di Benevento. Storia del secolo XIII ha un’importanza fondamentale per la memoria storica del Sannio. In essa l’autore dette il meglio di se stesso, nonostante una scrittura arcaica ridondante di linguaggio poco proponibile per una sciolta lettura[15]. Le sue finalità politiche erano precise vertendo su un elemento centrale, il tradimento, dal quale scaturiva odio e rigetto di ogni ambiguità politica. Quando scrisse quest’opera il Guerrazzi aveva solo 23 anni ma il suo pensiero era già delineato[16]. Volitivo politicamente, l’autore non possedeva un’adeguata preparazione storica”[17].

Sul piano letterario, numerosi scrittori si sono impegnati in tempi successivi nel descrivere la lotta tra Papato e Impero attraverso le parti degli Angioini e degli Svevi. Va subito chiarito che il Manfredi di lord George Gordon Byron non ha nulla a che fare con il re di Sicilia, e altrettanto vale per le opere musicali di Ciaikovskij e Schumann ispirate al personaggio di fantasia. Tra gli autori che invece hanno affrontato la figura dello Svevo, ne dobbiamo citare due in modo particolare: Giacinto de’ Sivo con il suo Corrado Capece. Storia pugliese de’ tempi di Manfredi[18]e Luigi Capranica con il suo Re Manfredi. Storia del secolo XIII[19]. Altri testi andrebbero ricordati ma spesso sfociano nell’epopea drammatica del protagonista svevo mettendo in disparte le circostanze concrete della battaglia combattuta il 26 febbraio 1266 sul territorio di Benevento.

Il romanzo del de’Sivo - la trama manca persino nel possente Dizionario Bompiani delle Opere - ruota attorno al signore di Atripalda che parteggiò sempre con gli Svevi combattendo a Benevento e poi mettendosi a servizio di Corradino: condannato a morte da Carlo d’Angiò assieme a due suoi fratelli, fu prima fatto accecare dal crudele re francese (nelle ultime pagine il personaggio rievoca le sue gesta assieme a Giovanni da Procida che promette vendetta... e la compirà proprio a Palermo). Lo spirito che aveva animato Giacinto de’ Sivo in questa opera era chiaramente politico, anzi patriottico, come si rileva seguendo il passo che descrive Manfredi: “Italiano d’ingegno e di natale, e supremamente degno di esserlo, fu gran cavaliero, possente capitano e buon re, e maggiore uomo che cavaliero capitano e re; egli voleva la italica gente una e rispettata e a farla si adoperava... non volle scampo, chè il poteva, e morir volle su la patria terra” (Prologo, pag. VIII). Affermazione questa che, sulla penna di uno scrittore dipinto come borbonico e reazionario, appare quanto mai significativa per dimostrare quanto settaria e arrogante diventi la critica letteraria divulgata dalla cultura dei vincitori: in questo caso il pensiero corre direttamente a Francesco De Sanctis che, grazie all’autorevolezza accademica e istituzionale, impresse il proprio marchio sulla storiografia delle belle lettere essendo professore universitario a Torino e ministro della Pubblica Istruzione a Roma. Assai nota è la sua sentenza per cui “la letteratura è una espressione della società”[20] (e forse, per onestà intellettuale, alla parola “società” si dovrebbe aggiungere l’aggettivo “dominante”).

Ma torniamo al Guerrazzi e al suo stile letterario, partendo dalla trama della Battaglia che si sviluppa per ben 29 capitoli seguendo un complicato percorso noto a pochi fedeli lettori. L’azione principale riguarda l’impresa di Carlo d’Angiò contro Manfredi re di Sicilia. Il piano storico si fonde con l’intreccio fantastico: lo Svevo si innamora della figlia del conte Odrisio della Cerra il quale, venuto a conoscenza del clandestino legame, induce la ragazza a sposare il conte di Caserta. Costui si accorge però che la moglie è incinta e la uccide. Il  bambino, nato dalla madre agonizzante e ritenuto morto, viene prelevato di nascosto ed allevato sotto la tutela del conte nonno cui si racconta di essere figlio di Enrico lo Sciancato il quale patisce il carcere per colpa del fratello vale a dire Manfredi. Crescendo, il giovane di nome Rogiero comincia a nutrire un profondo odio verso il Re svevo, odio che si acuisce nel tempo. Apprendendo la morte del suo presunto padre, Rogiero  asseconda la trama del Cerra e raggiunge l’Angioino per consegnargli le lettere di alcuni baroni che congiurano appunto contro Manfredi. Appena compiuta la missione, tuttavia, Rogiero scopre da un servo la sua falsa discendenza: disperato, vorrebbe riparare al malfatto ma viene catturato e imprigionato dagli uomini del Cerra. Dalla cella riesce comunque a fuggire dopo aver scoperto un’altra congiura contro lo Svevo che finalmente avvicina per svelargli il complotto. È ormai tardi. Carlo d’Angiò, ormai penetrato nel Regno, sfrutta il tradimento del Caserta che gli consente di superare il Garigliano. Lo Svevo è costretto a fuggire da San Germano per accettare battaglia nei pressi di Benevento. Abbandonato dagli alleati, affronta da solo la lotta frontale e muore da eroe. Contrapposte sono le figure dei personaggi: Manfredi prode ma non virtuoso, Rogerio ardimentoso ma inizialmente traditore, i conti di Caserta e della Cerra truci per azioni e interessi. Unico a salvarsi è Ghino di Tacco, bandito schietto, avverso alle perfide leggi e dotato di spirito generoso, personaggio minore ma incisivo. Da sottolineare il finale fantasioso. Moribondo tra cadaveri di soldati e cavalli, Manfredi scorge un frate incappucciato al quale chiede di confessare i suoi peccati tra cui l’assassinio del padre Federico ma, al termine del colloquio, scopre trattarsi non di un religioso ma del nemico conte di Caserta. E muore tacciandolo ancora di viltà e tradimento.

Negli scritti dello scrittore toscano “non mancano descrizioni macabre, orrende visioni di battaglie, urla e imprecazioni” che li fanno “somigliare più a poemi epici che a romanzi veri e propri”[21] sicché ne sortisce un gusto letterario che esprime una continua ricerca di un mezzo per sviluppare l’odio alla tirannide e l’amore per la libertà. Lo ammetteva lo stesso Guerrazzi nel crepuscolo della sua vita, durante un colloquio con un altro personaggio estroverso come il napoletano di origine francese Marco Monnier: “Quand’io compongo un libro, non ad altro intendo che al effondere l’anima mia, a comunicare la mia idea o la mia fede. Come cornice scelsi il romanzo, forma popolare e graditissima a’ nostri dì, ma la tela è il mio pensiero, i miei dubbi o i miei voti”[22]. Appare faticoso rileggere il Guerrazzi. La sua prosa ottocentesca, la sua ampollosità espressiva, il suo periodare declamatorio, la sua aulica lingua sono certamente poco accettabili e non concorrono, purtroppo, ad esaltare il fascino delle vicende tratteggiate. Da iscrivere invece tra gli aspetti positivi l’utilizzo del romanzo quale arma politica che ha accompagnato l’intera sua agitata vita. “Personaggio di vigorosa volontà, di scomposta e disordinata eloquenza, scrittore reso quasi illeggibile dalla turgida pesantezza della sua prosa, ma di grande importanza per tutta la cultura della media e piccola borghesia laica del nostro Ottocento”[23]: con tali caratteristiche il Guerrazzi è entrato e si è incardinato nella storia della letteratura italiana.

Una brevissima nota sul giallo della sepoltura. I commentatori moderni hanno sempre parlato di una fossa presso il fiume Verde seguendo il verso di Dante ma l’hanno identificato nel Liri. Di recente il Bologna ha chiarito che potrebbe trattarsi invece dell’ultimo tratto del Tammaro dalla gente locale chiamato appunto Verde, e la spiegazione sembra la più logica. Tuttavia, il Giannone (1676-1748)[24] sottolinea una pagina del commentario di Boccaccio alla Commedia che sostiene trattarsi del Viridis fluvius a Picaenatibus dividens Aprutinos et in Truentum cadens, chiamando in causa un terzo fiume Verde, esistente davvero allora ed oggi chiamato Marino, che scorre per 121 chilometri appunto tra il Teramano e il Piceno prima di confondersi nelle acque del Tronto. Il dibattito resta aperto.

Giacomo de Antonellis


[1] Francesco Flora, Storia della letteratura italiana, volume IV, pag. 289, Mondadori, Milano 1957. Nato a Cerreto Sannita nel 1891, lo studioso venne a mancare a Bologna nel 1962.

[2] In senso stretto Friedrich Schiller va considerato uno dei massimi rappresentanti del nuovo genere letterario esaltando la figura dell’eroica pulzella Giovanna d’Arco, nel dramma Die Jungfrau von Orleans, oggetto di grande attenzione da parte di numerosi scrittori tra cui Vincenzo Monti (che si era già impegnato in una traduzione della Pulcelle di Voltaire), l’amico Johann Wolfgang Goethe e più tardi il mistico cattolico Charles Peguy.

[3] Orazio Gnerre - Gianandrea de Antonellis, Kultur. Panorama storico-critico della letteratura italiana, pag. 297, Il Chiostro, Benevento 2007, ove si annota: “E così il romanzo da storico si trasformerà in verista”.

[4] Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, volume III, pag. 96, Einaudi scuola - Elemond, Milano 1991.

[5] F. Flora, op. cit., pag. 300. Ove l’autore esclude che i Promessi sposi - pur con il loro continuo richiamo ai fatti storici - possano collegarsi al dominante genere letterario.

[6] Bartolomeo Sestini va considerato il capostipite del genere, in Italia. Toscano di San Mato presso Pistoia dove era nato nel 1792, di spirito liberale e carbonaro, dovette riparare a Parigi dove scomparve per una congestione cerebrale a soli 30 anni nel 1822. Il dramma della giovane senese ispirò Salvatore Cammarano per comporre il libretto dell’omonima opera di Donizetti

[7] Silvio Pellico (Saluzzo 1789 - Torino 1854) noto soprattutto per il memoriale sul decennio trascorso in prigionia nel carcere austriaco dello Spielberg con il titolo de Le mie prigioni (1832).

[8] Massimo Taparelli D’Azeglio (Torino 1798 - 1866, ufficiale di cavalleria e uomo politico, pittore e scrittore) aveva sposato la figlia di Manzoni, Giulia.

[9] Nato a Bellano sul lago di Como nel 1790, il Grossi fu amico del poeta milanese Carlo Porta e di Alessandro Manzoni, esordì con la novella Ildegarda e col poema I Lombardi alla prima crociata (dal quale Verdi ricavò l’omonima opera su libretto di Temistocle Solera). Morì nel 1853.

[10] Giambattista Niccolini (Bagni di Pisa 1782 - Firenze 1861) ebbe fama per i suoi drammi di stampo teatrale, oltre all’Arnaldo, come Matilde, Antonio Foscarini e Giovanni da Procida che ispirò Verdi per l’opera Vespri siciliani. affidata al libretto di Eugéne Scribe. Va osservato che la tesi politica del Niccolini, scrittore di fede ghibellina, “finisce però col sopraffare l’arte al punto che i personaggi, perdendo rilievo individuale, appaiono piuttosto simboli diu idee politiche” (O. Gnerre - Gianandrea de Antonellis, Kuktur, op. cit., pag. 298).

[11] Cesare Cantù (Brivio in Brianza 1804 - Milano 1895) fu critico letterario, poeta e storico: il suo nome è legato alla notissima Storia universale.

[12] Antonio Bresciani (Ala di Trento 1798 - Roma 1862, religioso gesuita) divenne uno scrittore di punta della neonata Civiltà cattolica occupandosi ampiamente di letteratura con romanzi che la critica postunitaria, influenzata dal nuovo corso anticlericale e massone demolì senza tregua con silenzi e attacchi. In particolare Francesco De Sanctis (Morra Irpina 1817 - Napoli 1883)  lo stroncò negandogli spazio nella sua Storia della letteratura italiana al contrario del Flora (op. cit., pag. 313) che in buona parte lo riabilitò rilevando la grazia e la precisione di alcune sue descrizioni ambientali, giungendo ad inquadrarlo sotto il profilo letterario come un autentico e rispettabile “poeta fanciullo”. In proposito si legga: Gianandrea de Antonellis,Un caso letterario e politico:L’Ebreo di Verona di padre Bresciani, sulla rivista “Nova Historica”, n. 33, 2010, pagg. 143-162.

[13] Michele Amari (Palermo 1806 - Firenze 1889) noto soprattutto come storico e orientalista: da rilevare che la sua Storia del Vespro siciliano, nella quale descrisse la famosa rivolta del 1282 – sedici anni dopo la battaglia di Benevento – contro l’invasore angioino, ai suoi tempi (la stesura definitiva avvenne nel 1843) fu unanimemente interpretata quale stimolo alla lotta contro la tirannia, connotato che possedeva un profondo valore in pieno Risorgimento.

[14] Toscano di Livorno ove nacque nel 1804, Francesco Domenico Guerrazzi viene considerato lo scrittore più romantico del Risorgimento italiano. Autore prolifico, egli ebbe vita travagliata. Conobbe l’amicizia con Mazzini ma conobbe più volte il carcere del governo granducale. Formalmente avvocato e uomo d’affari, ma romanziere a tempo pieno, fu anche inviato esule in Corsica dalla quale fuggì riparando a Genova. Repubblicano e anticlericale, dopo l’Unità divenne persino deputato dell’opposizione ma, rimasto deluso dal mondo politico, preferì ritirarsi a Cecina ove trascorse i suoi ultimi anni. Morì nel 1873. Tra le sue opere più significative: La battaglia di Benevento, prima edizione del 1827 e successive revisionate del 1852 e 1871; L’assedio di Firenze del 1836; Isabella Orsini del 1844; Il marchese di Santa Prassede del 1853; Beatrice Cenci del 1854; Pasquale Paoli del 1860; L’assedio di Roma del 1864; la Vita di Andrea Doria e Francesco Ferrucci  entrambi del 1863.

[15] G. Ferroni, Storia della letteratura, op. cit., vol. III, pag. 245, parla di “scomposta e disordinata eloquenza, scrittore reso quasi illeggibile dalla turgida pesantezza della sua prosa”.

[16] “Ho scritto questo libro perché non ho potuto dare una battaglia”, confessavo più tardi a Marco Monnier (L’Italia è ella la terra dei morti?, pag. 308, senza indicazione di tipografia e luogo di stampa, anno 1860).

[17] Rileggendo in termini contemporanei questo romanzo, Gianandrea de Antonellis (La battaglia di Benevento, traduzione dall’italiano dell’Ottocento nell’italiano corrente, illustrazioni del pittore Nicola Sanesi tratte dall’edizione originale, Edizioni di Realtà Sannita, Benevento 2001) ne ha messo in evidenza alcuni davvero macroscopici: ad esempio, egli cita la Rocca dei Rettori inesistente al tempo di Manfredi considerato che la costruzione (non a caso con struttura provenzale) rispecchia l’anno 1321; inoltre conferisce a Grimoaldo, figlio di Arechi, un titolo regale che nessun principe longobardo ha mai posseduto; infine, Manfredi non teneva campo a San Germano (Cassino) ma a Capua. Non a caso Anco Marzio Mutterle (nel volume a più mani Storia letteraria d’Italia. L’Ottocento, Vallardi, Milano 1990, pag. 1085) rilevava: “Guerrazzi opera in modo evidente una vera e propria aggressione nei confronti della storia [alternando] parti documentatissime altre con personaggi illustri fatti agire come figure di romanzo”.

[18] Giacinto de’ Sivo (Maddaloni 1814 - Roma 1867) scrittore fedele alla dinastia, noto per la sua multiforme attività e per la copiosa produzione di ricerche locali, tra cui una pregevole Storia di Galazia e di Maddaloni,  tragedie e scritti politici. Questo romanzo storico centrato, nonostante il titolo, su re Manfredi apparve in due volumi nel 1846 per i torchi della Tipografia Carluccio di Napoli. In seguito dette alle stampe altri drammi storico-letterari come Partenope e La cena di Alboino (entrambi nel 1858) e Belisario nel 1860.

[19] Luigi Capranica dei marchesi del Grillo (Roma 1821 - Milano 1891, personaggio dalla vita politica e priva assai complessa, similmente a quella del contemporaneo de’ Sivo) scrisse questo romanzo nel 1884 che tuttavia fu pubblicato soltanto dopo la sua morte presso la Casa editrice Fratelli Treves di Milano.

[20] Natalino Sapegno nella sua Introduzione all’edizione Einaudi 1957 della Storia della letteratura italiana del De Sanctis.

[21]  O. Gnerre - Gianandrea de Antonellis, Kultur, op. cit., pagg. 297-298.

[22]  M. Monnier, L’Italia è ella...., op. cit., pagg. 319-320.  

[23]  Giudizio ripreso da G. Ferroni, Storia della letteratura, op. cit., vol. III, pagg. 244-245.

[24]  Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, tomo III, libro XIX, cap. III, pag, 171, Opere, Italia 1888.

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