Breve soggiorno in Benevento di Barometro Battistino

Scritto da  Giacomo de Antonellis

Disceso da un treno proveniente da Milano via Roma, el scior Barometro Battistino si guardò attorno nella speranza di assistenza. Niente. La banchina numero 3 era ormai deserta. Allontanatisi i pochi e frettolosi viaggiatori si era dileguato anche il ferroviere di servizio. Il bagaglio non era pesante; ma notando un ascensore il viaggiatore pensò di utilizzarlo premendo più volte il pulsante ahimè senza riscontro. Di animo sereno e di fisico prestante – lumbard integrale – stimò possibile scendere e salire con le scale. Uscì all’esterno quando ormai imbruniva e soprattutto pioveva: forte del proprio cognome, l’imprevisto non lo turbava. Vide una rigogliosa fontana e si consolò, vide un paio di clochard sdraiati sotto la pensilina e si commosse, vide una generosa pubblicità di liquori e si rianimò. Purtroppo non scorse alcun mezzo di locomozione. Cercò allora un approccio con l’ufficio informazioni con esito negativo. Un edicolante gli spiegò che sì, un tempo, autobus e taxi stazionavano sul piazzale ma ciò era cessato perché la nuova urbanistica privilegiava l’estetica effimera rispetto ai servizi necessari: con gentilezza gli indicò poi un strada laterale dove (forse) avrebbe trovato un’auto pubblica e magari (nonostante l’orario) persino un autobus di linea.

Battistino non perse l’abituale ottimismo e, superando stanchezza e acqua fendente, decise di trascinare il rolley verso il B&B già prenotato. Chiedendo a destra e manca lo raggiunse e si compiacque dell’iniziativa mentre andava programmando la visita della città. Prima di tuffarsi nel letto per un meritato riposo a fine della domenica estiva, previde per l’indomani una magnifica giornata di sole. Sotto questo profilo risultava imbattibile: non a caso si chiamava Barometro.

Turista perfetto e voglioso di mettere a frutto l’intero arco della giornata, la mattina successiva di buon’ora scese in campo, munito di piantina e di guida rossa del Touring Club di cui era fedele aderente. Era uomo di mondo e sapeva che l’ora non era adatta ai musei ma certamente le chiese avrebbero avuto porte spalancate e, siccome si trovava in pieno centro, decise di puntare su quelle che erano più a portata di mano. Davanti alla basilica dell’apostolo protettore ebbe la prima delusione. Porte chiuse poiché la prima e unica messa risultava ad uso di dame e cavalieri, alle 10. Ripassare, please. L’alternativa era suggestiva. Il vicino complesso di San Domenico. Cancelli sbarrati. Out. Passiamo oltre, si disse, e raggiungiamo l’Annunziata. Ahi, ahi. Tutto chiuso e nessun cartello di chiarimento tranne una pala illustrativa delle bellezze interne. Niente da fare per ammirare di persona la cappella di San Gennaro e altre opere rimarchevoli descritte sul suo testo. Trovandosi nei paraggi puntò allora sull’antichissima chiesa di San Salvatore che presto raggiunse. Mancava qualsiasi cenno di apertura ma da un passante, che si esprimeva in un idioma a stento percepito dallo sprovveduto nordico, gli fece capire che era affidata alla buona volontà di volontari.

Chiedere a Santa Sofia. Così fece ma nel sito Unesco si stava celebrando la messa e non ebbe soddisfazione. Restando in fondo al tempio cercò almeno di carpire l’essenza di questo straordinario manufatto di origine longobarda. Benché monumento dell’Unesco, nessuna targa rilevava lo spessore del sito. Pianta ottagonale, sui generis per un luogo di preghiera, in passato era il fulcro della comunità monacale che vedeva il potente abate guidare folte schiere di religiosi e conversi, in diuturni impegni tra preci e canti. Adesso – assurta a parrocchia, riservata ai riti ordinari ma soprattutto  ambita dai ricchi per le cerimonie nuziali, in mezzo a panche statuine e ceri, con l’altare e l’ambone celati in parte ai fedeli dalle pesanti colonne, con due malconce stanzini laterali –  l’antico oratorio rifletteva assai pallidamente la solennità del tempo che fu. E persino l’ardito campanile sulla piazza sembrava contento di mantenere le distanze da chi restava indifferente alla sua manutenzione.

Il buon Battistino risolse allora di visitare il Museo del Sannio di cui tutti esprimevano mirabilia. Sfortunato davvero. Pausa di riposo per il personale, proprio il lunedì. Perché disperare? La città di Benevento possiede risorse a non finire, lo sapeva con certezza. Aveva tempo per altre eccellenze. Girò l’angolo e si trovò davanti alla Rocca dei Rettori e alla Villa comunale che sembravano attenderlo a braccia aperte. Si lasciò prendere dal panorama sulla vallata del fiume Sabato e sulla cerchia della Bella Dormiente. Un agglomerato di verde sulle pendici dei colli, una linea corporea scolpita dalla natura, un pullulare di edifici e di strade ad esaltazione dell’operosità umana, un fiotto di acque serpeggianti tra le boscaglie, il laghetto con i cigni. Che spettacolo! Incancellabile dalla mente. Restò a lungo con gli occhi che si beavano di tanta soavità. De Beneventana mirabilia, ripeté nel silenzio della mente parafrasando il suo Bonvesin de la Riva cantore delle mille grandiosità mediolanensi. Il tempo scorreva e doveva affrettarsi. Non usando cronometri e schivo dal bloccare i passanti, si mise alla ricerca di un pubblico orologio. Ne trovò, eccome. Uno chiaramente rotto, un altro bloccato a un orario antelucano, un terzo (digitale, offerto da un farmacista) che evidentemente bisticciava tra tempo solare e legale. La luce e il caldo inondavano le strade e Battistino ne approfittò per una sosta. Chiese un caffè espresso restando sorpreso dell’insistenza del cameriere nel volergli accoppiare un bicchiere d’acqua: non doveva assumere alcuna pillola, spiegò. Il servente lo guardò stralunato. A banco acquistò una cartolina per salutare un amico e si incamminò lungo il corso principale per infilare la missiva alla prima cassetta rossa. Ne trovò facilmente un paio ma tutte prive dell’apertura superiore. Questa non poté trattenersi e chiese spiegazioni. La risposta fu immediata e unanime. Non servono a nulla: alcuni decenni fa l’amministrazione postale le aveva collocate per facilitare il ritiro del materiale: gli addetti avrebbero raccolto lettere e stampe dalle “vere” buche per poi andare a infilarle in questi centri intermedi dove un successivo giro di operatori passava a ritirare per avviarle infine alla spedizione. Un sistema stupido e complicato, per fortuna decaduto in tempi rapidi. Purtroppo questi singolari monumenti all’inefficienza burocratica testimoniano tuttora gli sprechi dei servizi pubblici, con l’aggiunta che a Roma “funzione” un apposito comitato incaricato a risolvere il problema: non fa nulla per mancanza di idee e di fondi mentre i suoi impiegati continuano a gravare sui contribuenti. Non restava che sorridere con amarezza. Davanti al più vicino Ufficio postale, come gli avevano suggerito, non trovò alcuna buca ma ne conobbe subito il motivo da un passante assai gentile come lo sono tutti i beneventani per bene. Qualche anno prima – chiarì costui – i locali postali si trovavano a cento metri dagli attuali; spostando l’agenzia i dirigenti dimenticarono la cassetta e poi si giustificarono: a cosa serve una buca in un’éra che naviga sulle onde elettroniche?  

La magnificenza dell’Arco di Traiano indusse Battistino a superiori considerazioni. A ragione era definita Porta Aurea, con magnifica prospettiva sulla discendente Via consolare e sul gioiello di Sant’Ilario. Ciò che maggiormente colpì la fantasia del lombardo fu il racconto di tante storie antiche attraverso una serie di pannelli marmorei in perfetto stato di visibilità dopo 19 secoli. Onore all’arte del passato e all’efficienza dei mastri costruttori. Quale baratro con la superficialità (spesso congiunta a ruberie) delle odierne opere pubbliche! Se ne rese facilmente conto passeggiando all’interno dell’area pedonale e in particolare nella deserta piazza Roma dove il suo lieve calpestio si accoppiava passo dietro passo al cigolare degli sconnessi lastroni di pietra. Dotato di senso civico benché in trasferta (così son fatti i lombardi, che nulla hanno in comune con i longobardi) grazie all’ausilio della guida TCI raggiunse il Palazzo magistrale ritenendolo il luogo deputato a raccogliere le segnalazioni dei cittadini. Nell’atrio trovò soltanto una persona impegnata in giochi di fumo, fuori ufficio: interrompendo la goduria della sigaretta, l’uomo lo informò che l’edificio era praticamente vuoto non avendo ancora una precisa destinazione operativa: per la sua rimostranza bastava rivolgersi alla sede municipale di Palazzo Mosti chiaramente indicata dalla piantina. Grato per l’assistenza il buon Barometro ringraziò e si diresse colà, non senza aver dato uno sguardo curioso e ammirato all’obelisco che adornava una piazzetta poco distante. Dopo una breve discesa punteggiata da graffiti con pari opportunità amorosi e scurrili, la cui vetustà non aveva mai scalfito le certezze degli amministratori rispettosi delle espressioni anonime, individuò senza difficoltà il signorile edificio e si avvicinò alla guardiola per esporre il problema. I tre vigili presenti (tra parentesi i primi e unici visibili, al punto che egli aveva pensato di trovarsi in una città “demilitarizzata”) si consultarono perplessi, incerti sull’approccio e sull’opportunità di rilasciare informazioni riservate a un personaggio certamente fuori del normale; alla fine convennero – considerata la determinazione del visitatore – sull’opportunità di sbarazzarsene affidandolo agli uffici tecnici. Altra escursione tra i vicoli beneventani con vista panoramica sui rifiuti depositati nel cavedio posteriore di Palazzo Mosti, sulla cripta cristiana scoperta e abilmente celata dalla Sovrintendenza davanti alla chiesa di S. Teresa in eterno preclusa, e sulle scale immobili di via del Pomerio. Tra un ufficio e l’altro il tempo scorreva senza dare soddisfazioni allo sconsolato Battistino che infine ritenne più opportuno pensare ai casi suoi e puntare sul programma di visita.

Lo attendevano il Teatro Romano, la cerchia muraria e il Duomo che lo stupì per la bellezza del campanile e del portale. Si chiese come mai un simile monumento mancasse di sagrato, restando esposto al disordine del traffico. Forse era colpa di quel dannato scheletro di cemento e mattoni che l’aggrediva a pochi metri di distanza. Quando riuscì a completare il giro era oramai pomeriggio inoltrato. Lo spuntino meridiano non bastava e vagheggiava un pasto completo da buona cucina tipica. Cosa gli mancava? Per la verità il suo taccuino prevedeva molte altre cose mentre per esse avrebbe sfruttato la mattina successiva. Il decantato mercato alimentare di Porta Rufina, la collina della Pace Vecchia, lo stadio di Santa Colomba (dal tempo della naja con gli alpini del “Cadore” impazziva per la maglia rosso-giallo del Bassano), il quartiere giardino (si fa per dire) di Rione Libertà, il Ponte Leproso, con un pensierino rivolto a Pietrelcina paese per il quale nutriva particolare affetto non solo per via del santo Pio ma in quanto luogo di nascita del nonno paterno. Troppa carne a cuocere? Forse doveva ricorrere ad un taxì, ma dove diavolo si nascondevano le auto pubbliche? Non ricordava di aver visto l’ombra di un posteggio e neppure un mezzo in circolazione, in tutto il centro cittadino. Strano, rimuginò, persino nella mia Dongo (3500 abitanti) abbiamo un paio di vetture in servizio per spostarci dal lago alle valli traversali.

Barometro mangiò con gusto seguendo le pietanze suggerite dalla padrona del ristorante. Poi, soddisfatto anche per il moderato conto della cena, tornò presto della sua confortevole camera relativamente low cost e si addormentò nella quiete dell’ambiente, sognando in successione una serie di “quadri”. Si rivide nella casetta affacciata sulle fredde acque di Como, ripercorse la tumultuosa corsa verso la Stazione centrale, il fulminante guizzare della Freccia, il cambio treni a Termini, l’arrivo nella provincia sannita patria del nonno orologiaio emigrato in Svizzera, colà pervenuto al successo e sposatosi con una donna lombarda, ma colpito da infarto in quel di Mendrisio proprio sulla strada del rientro definitivo: un evento decisivo che aveva indotto la nonna a fermarsi nei suoi cari luoghi. Per tale motivo in un batter d’occhio il carattere ticinese era andato sovrapponendosi a quello meridionale. Si svegliò quando il sole cominciava a filtrare dalla finestra. In pochi minuti era pronto, consumò la colazione secondo contratto, ed uscì all’aperto.

Prima tappa, il mercato che a quell’ora doveva vivere il massimo del suo fulgore. A Porta Rufina, tuttavia, scoprì che non esisteva alcun mercato: una volta esso era una potente attrattiva della vita cittadina finché qualcuno, assecondando una presunta modernità, aveva deciso di trasformare l’area dotandola di strutture avanzate, scale mobili, recinto archeologico, trattorie tipiche, librerie multifunzionali, negozi di moda, marchi colorati. Durò poco. Inspiegabilmente, il Malies – ecco il leggiadro nome postogli all’inaugurazione – fu colpito da un subitaneo black out. Per colpa precipua della mancata manutenzione che fece svilire gli spazi commerciali. In breve lo spazio fu abbandonato al degrado incutendo paura e disgusto, tra vetri infranti, pietre rimosse, sporcizia dilagante, escrementi recenti, cartacce e bottiglie. Un autentico monumento all’incapacità amministrativa del Comune e all’inciviltà umana, frequentato ed offeso soltanto da barbari locali e d’oltremare ai quali la pubblica “autorità” tutto consentiva. Esterrefatto, il povero Battistino preferì allontanarsi a passi veloci puntando sulla via di Napoli. Raggiunse subito un complesso urbanistico che il regime podestarile aveva disegnato prima della guerra e negli anni della ricostruzione portato a termine dal governo democratico con l’augurale denominazione di Rione Libertà. Un modello da manuale di architettura. Con verde a sufficienza, diffuso tra linea di abitazioni e strade di scorrimento. Alberi e prati in misura fin troppo abbondante, probabilmente si erano detti gli assessori, tagliando in due il quartiere con una prolungata struttura di cemento che – per nascondere l’inganno – si erano affrettati a chiamare “spina verde”: che si trattasse di una spina appariva evidente, che fosse verde era meno probante. Comunque la fretta dell’appalto non corrispondeva allo stato di avanzamento del progetto destinato a sistematici rinvii (qualche maligno indicava le prossime elezioni comunali quale data certa per il taglio del nastro).

Dal quartiere – con la sua piccola stazione ferroviaria, tempio di drogati e senza tetto – alla zona sportiva il passo era breve e il giovane non faticò molto nel portarsi a ridosso dell’impianto dedicato al calcio, illuminandosi davanti al tripudio di colori rossi e gialli sulle gradinate del Santa Colomba. Gli mulinarono tanti pensieri: “Sarebbe bello un gemellaggio... abbiamo più o meno la stessa anzianità (noi del 1920, il Benevento del 1929)... i due stadi sono colorati alla stessa maniera... partecipiamo entrambi alla Lega Pro agognando da sempre un livello superiore, contiamo sul sostengo di un imprenditore (per noi un presidente tessile, per la squadra del Sannio un... non so, pare che ci sia qualche novità)... e poi i beneventani hanno il calcio nel loro DNA, non per nulla vedo bambini e adulti giocare a pallone liberamente nelle piazze, agevolati dall’assessore allo Sport e dai benevoli vigili”. Fortunato questa volta, a volo salì su un autobus in partenza dalla Rotonda degli atleti: portava il numero 12 e la scritta Capodimonte, il che lo convinse di poter scendere nella parte alta della città; soltanto nel corso del viaggio l’equivoco fu sciolto. La corsa servì tuttavia a fargli osservare cose nuove e cose già viste. Fece tappa ai Cappuccini e in viale Mellusi prese un altro mezzo (forse la linea 2) per tornare in piazza Orsini. Voleva inquadrare Port’Arsa, il Ponte Leproso e la zona dei mulini. Dopo l’Arco del Sacramento sbagliò strada ma accidentalmente scoprì un portico con la leggendaria casa di San Gennaro. Autentica gabola, come se dise à Milan, peraltro nemmeno sfruttata turisticamente. Per la via di San Filippo – chiedi qui, chiedi là – arrivò fino al Sabato e si dette a fotografare ogni particolare. Ne valeva davvero la pena.

Gli restava Pietrelcina. Nel pomeriggio “scoprì” l’esistenza di una corsa veloce che in mezz’ora l’avrebbe portato sui passi di padre Pio (al secolo Francesco Forgione, 1887-1968). Fu un’impresa titanica perché il cosiddetto Terminal non possedeva alcun requisito per tale scopo. Roba da terzo mondo (forse peggio) con un piazzale attraversato in continuazione da vetture private, nonostante l’ovvio divieto, spesso lasciate in sosta abusiva; struttura priva di banchine e di paline segnalatrici; biglietteria inesistente la biglietteria con servizio espletato da un bar ove non si forniscono informazioni; rinviando agli autisti parcheggiati su mezzi con perenne motore acceso; nessuna tabella con i percorsi e gli orari. Qualche notizia, con beneficio di inventario, viene appresa presso uno sportello turistico della Provincia con orario ridotto di ufficio. Una situazione incredibile. Nell’attesa Battistino si immerse nella lettura del suo Vademecum apprendendo che il nome del paese derivava dalla corruzione di pietra pulcina (piccola pietra) in contrapposizione ad una località definita “sasso maggiore” sulla riva opposta del Tammaro, tutti luoghi tormentati nel tempo da numerosi e terrificanti terremoti. Scoprì pure il lindore delle stradine e la cura degli abitanti per tutti i luoghi sacri del Santo – casa natale, chiesetta del battesimo, dimora da studente, abitazione del fratello ove passò un lunga convalescenza – visitabili in permanenza dai pellegrini e dai turisti. Rilevò pure che i gestori dei negozi-ricordo mostravano un atteggiamento niente affatto aggressivo come in tanti altre località da turismo religioso. Si compiacque per la civiltà dei suoi progenitori, rievocando la serietà e l’onestà del nonno. Rientrando con l’ultima corsa per Benevento, ebbe anche modo di passare davanti al terribile monumento sulla Rotonda dei Pentri, tale Andrea Varricchio sculpsit (!), schiaffo alla santità di padre Pio. Sbarcò in città appena in tempo per la cena.

L’indomani, di buon’ora, il lumbard si portò in Stazione per la Freccia argentea diretta al Nord. La banchina numero 4 era ancora deserta mentre sulla massicciata vagavano 20/30 cani randagi, una torma composita con animali di razze diverse al seguito di un capogruppo. Padroni del campo. Il fischio del treno in arrivo li indusse a spostarsi, con lenta indifferenza. Con tale immagine finì l’escursione in Benevento del nostro Candido con l’augurante appellativo di Barometro Battistino. 

 

A margine di questo racconto, è necessario un chiarimento. Il patriota Silvio Pellico (Saluzzo 1789 – Torino 1854) dagli studenti conosciuto per le sue celebrate quanto poco lette Mie prigioni, nel 1819 si dilettò a scrivere un racconto umoristico il cui protagonista – ingenuo e ottimista come il volteriano Candido – scendendo dal suo paese per entrare nella metropoli veniva a scoprire delizie e misteri inenarrabili. Pellico affidò questo scritto alla rivista Conciliatore, che egli stesso dirigeva nonostante fosse già in odore di eresia per l’austriacante polizia. La quale non apprezzò lo spirito svagato ma pungente e, dopo tre puntate, ne bloccò la prosecuzione. Il narrare restò mutilo. Per la cronaca, un anno più tardi il piemontese veniva arrestato con l’accusa di aderire alla setta dei “Federati”, processato e condannato al carcere nella fortezza dello Spielberg in Moravia. Quel racconto, dal titolo Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro. ha ispirato questa moderna versione che ha trovato come epicentro la bella quanto sonnacchiosa Benevento.